ALFRED HITCHCOCK

1967 - Gli uccelli
1958 - La donna che visse due volte
1956 - L'uomo che sapeva troppo
1954 - La finestra sul cortile
1948 - Nodo alla gola
1960 - Psyco


Regista inglese. Dopo aver studiato presso una scuola di gesuiti, si iscrive alla facoltà di ingegneria. Al cinema arriva come disegnatore di titoli, rivelando subito una notevole attitudine, tanto da diventare capo ufficio della succursale inglese della Famous Players-Lasky. Ha l'occasione di misurarsi nell'aiuto-regia con Always Tell Your Wife (1921) diretto da S. Hicks, e subito dopo passa alla regia con Number Thirteen (1922), di cui è anche produttore in società con l'attrice C. Greet. In seguito, per alcuni anni lavora come aiuto di G. Cutts, alle dipendenze del produttore M. Balcon. Quest'ultimo alla fine lo impone come regista per due coproduzioni da girare in Germania, The Pleasure Garden (Il labirinto della passione, 1925) e The Mountain Eagle (1926). Ma è con Il pensionante - Una storia nella nebbia di Londra (1926) che comincia a mettere a fuoco la cifra che diventerà inconfondibile in quasi tutti i suoi film successivi: un'atmosfera carica di tensione, di insostenibile attesa, di paura e di pathos. Il film ha un grande successo e attira l'attenzione sul giovane regista, il quale, dopo aver diretto alcuni film non memorabili, coglie di nuovo il bersaglio con Blackmail (1929), girato ancora muto e subito dopo sonorizzato senza apparenti dissonanze, cioè senza nulla cedere delle sue atmosfere thrilling, rese acute da un artifizio esemplare: la parola «knife» (coltello) iterata fino al parossismo. Il successo non lo abbandonerà più, e di lì in avanti girerà – senza perdere un colpo, se non raramente – un numero incredibile di film, buona parte dei quali nella natia Inghilterra, dove rimarrà fino alla fine degli anni '30. È qui che il regista si fa definitivamente le ossa in un genere come il thriller, che frequenterà sempre, con poche eccezioni. Solidamente ancorato al genere, procede in una continua messa a punto di canoni – la suspense, il mistero, l'azione ecc. – che contribuisce a rendere classici, sottoponendo al tempo stesso le pratiche della messa in scena a un perenne affinamento, tale da rendere immediata e insieme complessa la lettura dei suoi film. In opere come Omicidio (1930) o L'uomo che sapeva troppo (1934) – quest'ultima una delle migliori del periodo «inglese» – il rigore strutturale e l'accuratezza minuziosa della costruzione degli stati di tensione si mostrano subito capaci di coinvolgere lo spettatore in una trama psicologica che sempre lo presuppone, facendone un elemento essenziale del gioco filmico. In Giovane e innocente (1937), per es., è gia anticipata una delle chiavi della «fenomenologia» hitchcockiana, vale a dire l'imponderabile casualità come fonte dell'incubo. Qui H. struttura una narrazione squisitamente antideduttiva (in cui è negato il meccanismo del giallo) per concentrare l'interesse su una sorta di dialettica dell'accidentalità. Allo spettatore è nota fin dall'inizio l'innocenza del protagonista accusato di omicidio. Solo per caso il plot si scioglierà nel dancing di un grande albergo, con la macchina da presa, puntata sull'orchestra, che si avvicina gradatamente con un movimento di dolly sul primo piano del batterista – il vero assassino – che viene tradito da un tic nervoso. Il club dei trentanove (1935), Sabotaggio (1936), La signora scompare (1938), sono tra i più riusciti film che precedono il passaggio di H. a Hollywood, avvenuto anche a causa delle condizioni non esaltanti del cinema inglese alla vigilia della seconda guerra mondiale. è il produttore D.O. Selznick che riesce a convincerlo a trasferirsi, affidandogli la regia di Rebecca - la prima moglie (1940). Il film vince l'Oscar, e H. si trova la strada immediatamente spianata. Comincia a girare un film dietro l'altro, tra cui Il prigioniero di Amsterdam (1940), Il sospetto (1941), Sabotatori (1942), L'ombra del dubbio (1943), Prigionieri dell'Oceano (1944), Io ti salverò (1945). Non scostandosi quasi mai dalle modalità del thriller e della suspense, il regista in realtà bersaglia nel profondo la psiche dello spettatore, scaraventandolo repentinamente in un universo di fantasmi e di incubi. Procede così – al di là della consuetudine del genere – verso la messa in campo di una sottile strategia dell'angoscia che si rivela capace di seminare inaudite turbolenze nelle profondità dell'inconscio. Quasi archetipico di tale strategia appare Nodo alla gola (noto anche con il titolo di Cocktail per un cadavere, 1948), che si caratterizza, tra l'altro, per un certo piglio sperimentale, costruito come è sulla base di una decina di piani ambientati in una sola stanza e montati in modo da simulare un'unica sequenza. Un cadavere in un baule, due giovani assassini quasi per gioco, e un loro professore che, preso dal sospetto, li porta al crollo psicologico in una sofisticata trama di domande, rimandi e allusioni. Prima di Nodo alla gola H. aveva però girato Notorious - L'amante perduta (1946) e, a seguire, Il caso Paradine (1947). In Notorious, uno spionistico ad alta tensione, C. Grant e I. Bergman si producono in una performance antinazista costantemente tenuta in equilibrio spasmodico, lui agente segreto che convince lei, pur amandola, a sposare uno dei capi dello spionaggio tedesco per meglio controllarlo, in un intreccio di melodramma, passione e suspense al calor bianco. Il caso Paradine, fosca vicenda di un avvocato che difende una donna dall'accusa di aver assassinato il marito (omicidio che in realtà la donna ha veramente commesso), è quasi la descrizione di un tonfo morale ed esistenziale che travolge i personaggi in un gioco di intrighi, passioni e cinismo malsano. Successivamente è la volta di pellicole «minori», quali Il peccato di Lady Considine (1949), Paura in palcoscenico (1950), Io confesso (1953), ma anche di grande intensità emotiva come L'altro uomo (1951, conosciuto anche come Delitto per delitto) e Il delitto perfetto (1954), quest'ultimo quasi preparatorio di una delle più clamorose opere hitchcockiane, La finestra sul cortile (1954). Tenere insieme una storia tratta da un racconto di C. Woolrich concentrandola nella scarna scenografia di cui è costituito il set – una finestra affacciata sul cortile che guarda l'edificio dirimpetto – rappresenta il colpo di genio che rende unica quest'opera. Un fotografo, costretto in casa per la frattura di una gamba, ammazza il tempo scrutando con il teleobiettivo un microcosmo di umanità indaffarata nelle mille sfaccettature dell'esistenza quotidiana, e finisce con lo scoprire un omicidio. Non tanto l'intreccio di sottile humour e suspense travolgente rappresenta la nota dominante di La finestra sul cortile, quanto l'idea che ne è sottesa, e che si allarga verso un orizzonte di riflessione critica apparentemente impensabile in un cinema d'azione come quello hitchcockiano. La finestra sul cortile, infatti, si presenta anche quale modello di «disvelamento» del voyeurismo dello spettatore e del cinema stesso, e come una sorta di riflessione sulla visione in generale. Con il successivo Caccia al ladro (1955) H. mette in scena la storia di un ex ladro di gioielli, ormai ravveduto, alle prese con uno sconosciuto che mette a segno colpi magistrali imitandolo nello stile. Un thriller carico di ironia, in cui l'azione gioca in realtà come «mascheramento» del vero centro di interesse, rappresentato dalla sovrapposizione della personalità dei protagonisti. Un tocco ficcante di comicità grottesca attraversa invece La congiura degli innocenti (1955), la cui cifra irresistibile si genera dall'assoluta indifferenza con la quale un cadavere viene sbalestrato a destra e a manca dai suoi immaginari assassini nel tentativo di farlo sparire. Dopo aver diretto Il ladro (1956), e un remake di L'uomo che sapeva troppo (1956), H. si appresta a inanellare un ciclo di opere che rappresentano il vertice della sua arte di metteur en scène, e che gli valgono definitivamente l'appellativo – in verità piuttosto banalizzante – di «maestro del brivido». Sulla base di una semplice trama giocata sul ritmo consueto del giallo, H. realizza un altro dei suoi capolavori, La donna che visse due volte (1958). Una donna si uccide gettandosi da un campanile, ma riappare, o meglio, riappaiono le sue sembianze nella persona di un'altra donna che irrompe sulla scena come sospinta da una mano fatale, perfetta sosia della prima. Il tema del «doppio», l'ambiguità delle figure femminili, il senso di angoscia, e molti altri dei motivi hitchcockiani sono qui giocati in una sintesi che ne provoca alla fine il progressivo «slittamento» in direzione di una stupefacente esplorazione delle zone insondabili della psiche, segnate dal senso ineluttabile del destino e del caso, e minacciate da una caduta della razionalità nelle profondità dell'inconscio. Il film seguente, Intrigo internazionale (1959), rappresenta un altro affondo rispetto a uno dei temi centrali dell'opera di H., quello dello scambio di persona, dell'equivoco che si rivela una trappola inestricabile, tanto più quando un personaggio viene preso per un uomo che non esiste. Tutte le strategie messe in atto per sfuggire alla casualità di un evento imprevedibile si trasformano allora nelle digressioni di un incubo, fatto di inseguimenti, fughe, colpi di scena. Memorabile la sequenza in cui il protagonista, solo in una pianura deserta, viene attaccato da un aereo. Altrettanto memorabile il finale, che si svolge sul monte Rushmore, tra le sculture che ritraggono i presidenti americani. Il suo maggior successo di pubblico H. lo ottiene l'anno successivo con il famosissimo Psycho (1960), in cui si mostra una volta di più capace di esaltare le strutture del thriller sconvolgendo alcune delle convenzioni più inveterate del cinema di intrattenimento. Per es., facendo morire la protagonista femminile dopo soli quaranta minuti; oppure impiegando una settimana per girare la celebre sequenza dell'accoltellamento della stessa protagonista nella doccia. Ma certo ancora una volta il nodo cruciale del film converge sul tema del doppio, o meglio, dello sdoppiamento schizoide generato dalla patologia psichica del protagonista maschile, fortemente intrisa di venature edipiche. Gestore di un motel sperduto nel deserto dell'Arizona, oppresso da uno shock familiare, in realtà l'uomo è dominato solo dal proprio «io» uscito «fuori di sé». Ed è certamente questa scissione, elaborata da H. con una disseminazione quasi maniacale di tracce inquietanti, che proietta lo spettatore in una dimensione emotiva bruciante. Un altro capolavoro, Gli uccelli (1963), H. lo realizza tre anni dopo. Il film riesce a trovare un incredibile equilibrio fra il livello dell'espressione e della messa in scena e quello dell'elaborazione quasi «filosofica». Una rivolta di uccelli si scatena contro la popolazione di uno sperduto paesino. Stormi gracchianti di corvi e gabbiani aggrediscono gli umani, li assediano, li terrorizzano. La bruciante allegoria è intrisa di pathos estremo, anche se H. si guarda bene dal lasciarne trapelare un qualche segno decodificante, o una qualche accentuazione di significato. Gli uccelli è quasi una summa dell'arte hitchcockiana, carico di un senso di oscurità apocalittica, di angoscia dell'essere, di parossistica minaccia, di incubi e di insostenibile tensione. In seguito la vena di H. appare calante, anche se Marnie (1964) si mostra ancora un thriller psicologico di grande rango, costruito intorno al progressivo disvelamento del «segreto» celato dietro la patologia cleptomane della protagonista. Quasi senili, come segnati da una forma di saturazione creativa, sono Il sipario strappato (1966) e Topaz (1969). Ma anche Frenzy (1972) e Complotto di famiglia (1976), gli ultimi due film del regista, non mostrano ormai che pallide tracce dell'antica maestria.