AKIRA KUROSAWA

1943 - Sugata sanshiro-la leggenda del grande judo
1946 - Non rimpiango la mia giovinezza
1944 - Spirito più elevato
1945 - Quelli che camminavano sulla coda della tigre
1947 - Una domenica meravigliosa
1948 - L'angelo ubriaco
1949 - Cane Randagio
1950 - Rashomon
1951 - L'idiota
1952 - Vivere
1954 - I sette samurai
1955 - Testimonianza di un essere vivente
1957 - Il trono di sangue
1957 - I bassifondi (1° parte)
1957 - I bassifondi (2° parte)
1958 - La fortezza nascosta
1961 - La sfida del samurai
1962 - Sanjuro
1963 - Anotomia di un rapimento
1965 - Barbarossa
1970 - Dodes'ka-den
1975 - Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure
1980 - Kagemusha, l'ombra del guerriero
1985 - Ran
1990 - Sogni
1991 - Rapsodia in agosto
1993 - Madadayo - il compleanno


Regista giapponese. Terminata la scuola superiore, studia pittura, ma si fa poi assumere come aiuto regista dagli studi P.C.L. e in seguito dalla casa di produzione Toho. Lavora soprattutto con il regista K. Yamamoto, e intanto scrive sceneggiature perlopiù non accreditate, finché non appare nei credits di Uma (Il cavallo, 1940), diretto dallo stesso Yamamoto. Passa alla regia nel 1943, con Sugata Sanshiro (La leggenda dello judo), la storia delle gesta agonistiche di uno dei primi campioni dello sport nipponico per eccellenza: opera acerba, che però rivela subito una notevole conoscenza del mezzo e una decisa originalità stilistica. La sua padronanza espressiva appare già del tutto consolidata con il film successivo, Ichiban Utsukushiku (Il più dolce, 1944), storia di operaie in una fabbrica di materiale bellico, che mette in campo l'interesse del giovane regista per il rapporto sociale e per le condizioni di vita delle classi subalterne. L'orrore della guerra, che pure K. non ha sperimentato personalmente, innerva Tora no o wo fumu otokatachi (Coloro che pestarono la coda della tigre, 1945), un'opera che fa propri i modi del teatro No nella riduzione di spazio e tempo in un'unica dimensione scenica. Con Asu o tsukuruku hitohito (Coloro che fanno il domani, 1946), ambientato in uno studio cinematografico e intriso dello spirito di rinnovamento postbellico, emerge la sua visione radicalmente democratica, che si staglia ancor più in Waga seishunni kunashi (Non rimpiango la mia gioventù, 1946), in cui un professore universitario si batte contro una burocrazia autoritaria con l'aiuto dei suoi studenti. Il film seguente, girato mentre era in corso lo sciopero di due anni contro la casa di produzione Toho, rivela un subitaneo cambio di registro, con un approfondimento dello sguardo verso i temi dell'individuo. Subarashiki nichiyobi (Una domenica meravigliosa, 1947): infatti, mette in gioco i sogni di evasione di una giovane coppia di innamorati poveri circondati da un mondo di desolazione. L'anno successivo è la volta di uno dei film più intensi e coinvolgenti di tutto il primo cinema di K., L'angelo ubriaco (1948), un'opera amara, disperata, lacerante e insieme intrisa di un tenue filo di tenerezza, che vede l'esordio di T. Mifune e segna l'inizio di un sodalizio tra regista e attore che durerà almeno un paio di decenni. Il medico dedito all'alcol, scettico e disilluso, e il boss malavitoso, tubercolotico e ormai privo di potere, giocano una partita in cui il cinismo e il disincanto si intrecciano con il sottofondo di umanesimo, a tratti visionario (la sequenza in cui il boss sogna sé stesso in una bara), a volte grottescamente umoristico, spesso potentemente espressionista (ma si è parlato anche di influenze neorealiste), carico tuttavia di una vena di sottile e lancinante lirismo. Ormai K. comincia a essere considerato il maggior regista giapponese (verrà soprannominato «Tenno», imperatore), ma molto presto anche il resto del mondo lo consacrerà come un maestro. Dopo aver diretto altri due film, Cane randagio (1949), una sorta di thriller asciutto e penetrante, e Shibun (Scandalo, 1950), ambedue con T. Mifune, vince il Leone d'oro a Venezia con Rashomon (1950), un'opera di potente suggestione che si traduce rapidamente in un simbolo incontrastato del cinema nipponico. Mifune vi interpreta la figura di un brigante di strada che uccide un samurai e ne violenta la moglie. La struttura narrativa del film si fonda sul contrasto delle versioni opposte dei personaggi, ognuno dei quali, nel corso del processo cui viene sottoposto il bandito, racconta la propria «verità», mentre anche l'anima dell'ucciso viene chiamata a dire la sua. La verità viene a galla, in una specie di balletto assurdo, grazie a un testimone casuale, e con essa affiora uno spaccato di menzogne, di cinismo e di bassezza morale. Dei due film che seguono, Haguchi (1951) è ispirato a L'idiota di Dostoevskij, mentre Vivere (1952) ha per tema l'ultimo segmento della vita di un arido burocrate, il quale, giunto alla soglia della morte, sceglie di compiere l'unico atto di libertà autorizzando la costruzione di un parco-giochi che in precedenza aveva sempre impedito. Due anni dopo ottiene il Leone d'argento alla Mostra di Venezia con I sette samurai (1954). Considerato una sorta di western in salsa nipponica, in realtà ha a che vedere con quel genere solo per il saccheggio operato da Hollywood sei anni dopo con il remake I magnifici sette, diretto J. Sturges. I sette samurai (circolato in Occidente in una versione fortemente ridotta) è, al contrario, un colossale affresco che – pur di ambientazione medievale – taglia come una spettrografia il Giappone post-bellico, con il suo intreccio stratificato di culture della tradizione e la tumultuosa spinta alla modernità. K. si consolida come una delle personalità più alte del grande cinema, ma paradossalmente quest'opera, come del resto Rashomon, in patria viene criticata per le «eccessive concessioni al gusto occidentale». In verità, il cinema di K., trasgredendo frequentemente i codici della tradizione nazionale, si rivela anche un cruciale veicolo di comunicazione della storia, del costume e della cultura del Sol Levante, spianando la strada verso le platee dell'Occidente ad altri cineasti della stessa generazione (come K. Shindo) e di quella successiva (come N. Oshima). In ogni caso K., ormai sostenuto da grandi riconoscimenti internazionali, per un certo tempo riesce a girare un film di seguito all'altro. Nel 1957, dopo un paio di prove «minori», realizza un'altra opera straordinaria, Bassifondi (1957), tratto da L'albergo dei poveri di M. Gor'kij. Il film rimanda la cruda dissezione di un mondo di reietti che vivono in una sorta di dormitorio allestito ai margini di una discarica. Una fauna di disperati, spesso mentalmente disturbati, preda di fobie e di speranze frustrate, inchiodati tra le mura del dormitorio e l'angustia del piccolo cortile che fungono da unità di luogo, gestita dal regista con l'assoluto rigore della messa in scena. Seguono due film magistrali, Il trono di sangue (1957) e La fortezza nascosta (1958). Il primo, ispirato al Macbeth shakespeariano, qui traslato nel Giappone del Cinquecento, mettendo in campo il senso della tragedia con la tecnica del teatro No si presenta come un gigantesco affresco visivo. Bizzarro, stravagante, e per certi versi anche divertente nella sua reiterata commistione di mondo contadino e casta dei samurai, è invece La fortezza nascosta, ambientato in un indefinito medioevo, nel quale il regista gioca sulle sfumate tonalità umoristiche del teatro kabuki e su modi del racconto d'avventura che rifanno il verso a quelli occidentali. Con queste opere, K. esibisce definitivamente la sua grande capacità di trasferire la mitologia del medioevo giapponese nell'immaginario popolare – vale a dire l'universo aristocratico dei samurai e quello miserabile dei contadini e dei servi della gleba fino ad allora sconosciuto al grande pubblico. Tuttavia, la scarsa risposta del pubblico di casa, e soprattutto l'indifferenza dei produttori, nel giro di pochi anni si trasformano in una sorta di ostracismo. Tra il 1960 e il 1965 K. gira infatti ancora un film all'anno, ma trova in seguito grandi difficoltà a farsi finanziare i suoi progetti. Nondimeno, in questo lasso di tempo realizza La sfida del samurai (1961), un'altra esplorazione del mondo dei cavalieri erranti del Sol Levante, un'opera clamorosa, non solo per il suo altissimo profilo estetico. Denso, avvincente, rigorosamente crudo, il film suscita un conflitto legale tra la produzione giapponese e quella italiana di Per un pugno di dollari, girato da S. Leone nel 1964. Quest'ultimo film, infatti, risulta letteralmente un «clone» dell'opera di K., trasferito però in uno scenario western quasi astratto. Anche Anatomia di un rapimento (1963) e Barbarossa (1965) sono opere di grande rigore formale e intensità narrativa, ma devono poi passare cinque anni prima che riesca a realizzare Dodes'ka-den (1970), un graffiante «ingrandimento» sulla corsa all'opulenza del Giappone moderno, che risulta al tempo stesso una cartografia della «crudeltà» di un modello competitivo che genera emarginazione, disagio mentale, e intere sacche di esclusione sociale. Di lì in poi, un quinquennio costituirà il periodo medio che occorrerà a K. per realizzare i suoi ultimi, straordinari film. È grazie all'intervento di denaro sovietico che il regista può realizzare Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure (1970). Nella taiga siberiana un ufficiale russo incontra il vecchio Dersu, cacciatore solitario, che gli salva la vita, e che poi lui salva a sua volta. Il cacciatore si lascia convincere a seguirlo in città, ma non resiste lontano dalla foresta e torna a morire nella sua terra. Girato con enormi disagi e in un lungo lasso di tempo, Dersu è un capolavoro di essenziale tensione, attraversato da un grande flusso emozionale, percorso da un umanesimo che si fa spesso consapevolezza dolente della perdita di un mondo naturale ormai minato alle radici. Con lo sfolgorante Kagemusha, l'ombra del guerriero (1980), realizzato grazie all'intervento di F.F. Coppola e G. Lucas, torna poi al medioevo nipponico mettendo in scena un uomo-ombra, un «kagemusha» appunto, ovvero un sosia messo bruscamente a sostituire un condottiero ucciso in battaglia. Si tratta di un ladruncolo, che alla fine viene smascherato e cacciato. Ma il piccolo uomo si è talmente calato nella parte che non vuole andarsene e finirà per morire in difesa di un regno non suo. Un'altra parabola sulle tragiche e inani illusioni di grandezza che si riverbera sul presente. Ancora più vigoroso Ran (1985), drammatica storia di un ex monarca che vaga nella campagna con il fedele buffone di corte e finisce per diventare pazzo, dopo aver abdicato in favore dei figli ed essere stato immediatamente scacciato. Ispirato al Re Lear shakepeariano, Ran è un film epico, visionario, quasi allucinatorio, costituito della stessa materia dei sogni, anzi degli incubi. L'umanismo del maestro giapponese si mostra ancora più accorato e insieme indignato in Sogni (1990), in otto episodi, tra uno sguardo duro sulla tragedia della guerra, una evocazione dolente della possibile catastrofe nucleare, immagini di campi di grano (in omaggio a Van Gogh), di alberi in fiore e di limpide acque fluenti. Con l'avanzare dell'età sembra che il bisogno di sperimentare un cinema futuro in K. si faccia inesausto, e cresca con il crescere dello sdegno per un mondo sempre più aggressivo contro l'ambiente naturale e contro l'uomo stesso. Uno sdegno che si manifesta in Rapsodia in agosto (1991), con tonalità struggenti e malinconiche, che evocano il ricordo dell'orrore nucleare di Nagasaki, sfuggendo però ogni ridondanza retorica o metaforica (con qualche concessione al simbolismo nel baluginare di un occhio gigante che allegorizza l'immane esplosione). Un'opera tutt'altro che senile, anzi depurata di ogni artifizio retorico e di estrema nitidezza formale. L'ultimo suo film, Madadayo - Il compleanno (1993), appare quasi un résumé al tempo stesso freddo e lancinante della visione del mondo di K., che forse si identifica con il vecchio professore festeggiato dai suoi ex allievi, il quale, alla domanda se sia pronto a lasciare la vita, risponde «Non ancora», madadayo, appunto.